martedì 31 gennaio 2012

Carnage


Da diversi anni con il solito gruppo di amici fidati, abbiamo preso la sana abitudine, specialmente nelle sere d’inverno, di restare in casa a guardare un film.
L’idea di stare in giro a tentare di riscaldarci le mani col fiato, spintonarci per arrivare al bancone di un pub e strapagare una birra annacquata, proprio non ci va.
Allora si sceglie un film, si sposta il divano per meglio vedere la tv, si mangiucchia un dolce che qualcuno ha avuto l’ottima idea di cucinare e portare, e si comincia.
Non manca chi si lamenta del freddo, chi si lamenta perché non vede bene, chi si lamenta per il semplice gusto di lamentarsi.
Fortunatamente, però, che il film sia stupendo (molto raro) o risulti veramente pessimo (più probabile), le serate cosi organizzate si concludono sempre abbastanza bene e sempre, almeno per me, hanno un gusto di intimità e amicizia davvero squisito.
La scelta del film è un gravoso impegno: la scelta sbagliata, infatti, rovina inevitabilmente la serata.
Occorre imparare, allora, a pianificare la scelta in base a dei fattori: quante persone ci saranno? Che tipo di persone ci saranno? Che tv si ha a disposizione?
Sembra esagerato, ma non bisogna sottovalutare nemmeno uno di questi elementi.
Se si è in tanti, ad esempio, il thriller, il film romantico, quello di fantascienza, e l’horror con una trama complessa, sono da sconsigliare sia perché basta un piccolo mormorio di ognuno dei presenti per perdere il filo sia perché, soprattutto nel nostro caso, la pulsione (perché è di questo che si tratta) che spinge a commentare ironicamente e sarcasticamente ogni fotogramma del film, rende ogni pellicola simile ad American Pie o a Fantozzi.
Ecco quindi che subentra l’importanza della tipologia di persone presenti: sono persone tranquille? Hanno gusti normali? Si accollerebbero un film più impegnato?
Infine la tv: se si è in tanti e lo schermo è un tubo catodico da 20”, risulta logico non proporre Avatar.
Tutto questo panegirico per arrivare al film che, giorni addietro, ho avuto la fortuna di vedere con una coppia di amici: quattro persone, nessuna particolare fisima per il genere cinematografico, tv lcd full-hd 32”.
Il film? Carnage di Roman Polansky.


Solitamente il nome di questo regista suscita uno smorfia di disapprovazione ed esclamazioni del tipo: “Immagino che sarà leggero il film…”.
Ma, avendo letto le recensioni, anche se proprio “Natale alle Bahamas” non è, so che non è neanche “Il pianista”.
La trama è semplicissima: due ragazzini, Zachary ed Ethan, si scontrano fisicamente in un parco. Il secondo ne uscirà con due incisivi rotti e qualche altro problemuccio.
Piuttosto che considerarla semplicemente una tipica rissa tra adolescenti (forse con qualche danno di troppo), i genitori dei ragazzi si incontrano nell’appartamento dei genitori di Ethan, per discutere sul da farsi.
“Geniale” è il primo aggettivo che mi viene in mente guardando le prime scene.
Tutto girato all’interno di un appartamento, con un cast di quattro ottimi attori e una telecamera perlopiù a spalla.
Gentilezza, ipocrisia e atteggiamenti politically correct guidano i primi trenta minuti del film.
I protagonisti si parlano, si aprono, si scusano e si rapportano in maniera eccellente. Sembrano anche aver trovato un punto di incontro per sistemare il viso del ragazzino colpito.
Ma il troppo storpia, si dice. E al tipico invito a rimanere per prendere un caffè/thè (che di solito ottiene una risposta educatamente negativa), la situazione cambia radicalmente.
In un crescendo di tensione, che a tratti sfocia nel puro umorismo, le maschere della società perbene cadono, e si iniziano a vedere i veri volti dei personaggi.
Chi ti ha fatto inizialmente simpatia, il tipo che cerca di mettere pace e usa toni sommessi, in realtà è un bifolco.
Chi avevi inquadrato come stronzo, in realtà…lo è.
Chi sembrava ferma e matura, ha invece il bicchiere facile e un esaurimento nervoso.
Chi sembrava fine ed altolocata, si rivela amante dell’alcool e leggermente depressa.
Anche a voi è venuto in mente Pirandello? Forse perché pirandelliana è la situazione, con i riti sociali e la finta cortesia; pirandelliana è anche la scelta cinematografica, con un set tutto rivolto allo spettatore e con le quinte in cui non sai cosa stanno facendo/dicendo/pensando i personaggi che vi sono.
Conflitto moglie/marito e, generalizzando uomo/donna; flusso espositivo ininterrotto arricchito, anzi, da storie esterne alla situazione che si inseriscono tramite le telefonate sul cellulare; ottima caratterizzazione dei personaggi; colpi di scena.
Cosa altro dire, se non che è stato un ottimo film che ha, però, un’unica pecca: non la svelerò, per non rovinarvi in anticipo la visione.
Davvero un’ottima serata, non c’è che dire.
A quando la prossima?

lunedì 30 gennaio 2012

Parallelismi 2

Mesi fa un carissimo amico insiste per prestami un libro, Hyperion, di Dan Simmons.
Devono passare diversi giorni prima che riesca a dedicarmi alla sua lettura, ma nel momento in cui aggredisco le prime pagine (particolarmente ostiche, devo ammettere), capisco che è un libro che leggerò tutto d’un fiato.
Vi rimando al link per scoprirne la trama e l’importanza a livello letterario (ha vinto il premio Hugo nel 1990, non è poco).
Ciò di cui invece di cui voglio scrivere qui sono gli spunti di riflessione e di ricerca che il romanzo mi ha regalato.
Innanzitutto, lo stile.
Ogni scrittore col tempo crea, sperimenta ed, infine, affina un proprio personale stile che lo contraddistingue: ci vogliono anni però, tanti libri letti e tanti fogli scritti.
Anni durante i quali si inizia a scrivere cercando di emulare lo stile degli autori preferiti e, allo stesso tempo, si cerca timidamente di allontanarsene sempre di più.
Tale procedimento porta, prima o poi, ad uno svezzamento stilistico e, da non sottovalutare, psicologico.
Si cerca il coraggio di scrivere quello che si ha dentro e ciò, per molti, è una forma di affermazione personale che travalica la scrittura in sé
Inoltre, col passare degli anni si scopre quale genere letterario è più consono al proprio animo: la poesia...o forse il romanzo. Non sarebbe meglio un bel racconto breve? E il romanzo storico? La fantascienza? Per non parlare del diario autobiografico, della sceneggiatura cinematografica e della saggistica.
Inevitabilmente, però, quando nella tua mente visualizzi, senti (e già ne pregusti le frasi) una trama che funziona, e magari la immagini come un bel poema in terzine di endecasillabi, la tua penna inizia a scriverla in tutt'altro modo, cioè come in realtà sai fare meglio: un racconto beve, per esempio.
Ci vuole una particolare attitudine e una grandissima flessibilità per passare (con risultati decenti) da uno stile all’altro. Pochi scrittori che si avventurano in questi campi ottengono lavori che vale la pena di pubblicare e di leggere.
Simmons, per mia fortuna, è uno di questi. Cambia stile, relativo linguaggio e sfumature psicologiche in base al personaggio o alla situazione. A volte per piegarsi ad esigenze di trama, a volte, e si vede, per puro divertimento.
La cosa grande è che lo fa all’interno della stessa opera.
Per chi, come me, legge la sera alla luce di una abat-jour quasi sempre lo stesso numero di pagine fino a quando non si addormenta, è più lampante questo distacco, questa netta differenza che caratterizza le varie parti del romanzo rispetto ad un’opera che mantiene sempre lo stesso ritmo.
E non puoi fare altro che sorridere quando ti accorgi di esserti immedesimato tanto da aver dimenticato che è stata la stessa persona ad avere sritto quelle diverse parti.
Grazie Simmons.
Hyperion: il titolo Simmons lo ruba al canto “La caduta di Hyperion: un sogno”, scritta dal poco conosciuto, e poco studiato, romantico poeta inglese John Keats nel 1819.
Non conosco Keats, ma i continui riferimenti ai suoi poemi, alla sua vita e alla sua personalità contenuti nell’opera, mi incuriosiscono a tal punto da cercarlo in rete e acquistarne le opere.
Simmons infatti, arriva a dedicargli un intero personaggio, un cibrido (un essere umano, cioè, in cui è stata impiantata l'intelligenza e la personalità di un altro essere umano) da cui rimango subito affascinato: bello, malinconico tormentato. Un po’ Roy Batty di Blade Runner, un po’ Leopardi.
Sfoglio le pagine dell’edizione italiana con la curiosità di leggere proprio Hyperion per capire cosa abbia ispirato Simmons ma, ahimè, leggo nella prefazione che non vi è inclusa, perché non è facile trovarne una traduzione in italiano. Le opere che ho davanti sono tutto il repertorio poetico tradotto, almeno in edizioni attualmente in libreria.
Pazienza, lo leggerò comunque.
I poemi differiscono per lunghezza, ma sono tutti complessi e articolati: solo dopo averne letti diversi mi accorgo, dal testo inglese a fronte, che originariamente erano in rima.
Peccato, la traduzione italiana, per quanto ottima, ha tralasciato questo aspetto, a mio parere importantissimo.
Una poesia, in particolare, mi ha colpito e ha attivato in me quei collegamenti metatestuali,  che arrivo a mettere a fuoco solo che dopo giorni e giorni ho rimuginato.
La incollo qui, affinché si possano trarre le mie stesse sensazioni:

«Che terribile bellezza! Da quest’istante strappo dalla mia mente qualsiasi altra donna» 
Terenzio, Eunuco, II, 4

Voglio una coppa piena sino all’orlo 
E dentro annegarci l’anima:
 
Riempitela d’una droga capace
 
Di bandire la Donna dalla mente.
 
E non voglio dell’acqua poetica, che scaldi
 


I sensi al desiderio lussurioso, 
Ma una sorsata profonda
 
Tracannata dalle onde del Lete,
 
Per liberare con un incanto il mio
 
Petto disperato dall’immagine
 
Più bella che gli occhi miei festanti
 
Videro, intossicandone la mente.

È inutile – mi perseguita struggente 
La dolcezza di quel viso.
 
Lo sfavillio del suo sguardo splendente –
 
E quel seno, terrestre paradiso.

Mai più felice sarà la vista mia, 
Ché ha perso il visibile ogni sapore:
 
Perduto è il piacere della poesia,
 
L’ammirazione per il classico nitore.

Sapesse lei come batte il mio cuore, 
Con un sorriso ne lenirebbe la pena,
 
E sollevato ne sentirei la dolcezza,
 
La gioia, mescolata col dolore.
 
Come un toscano perduto in Lapponia,
 
Tra le nevi, pensa al suo dolce Arno,
 
Così sarà lei per me in eterno
 
L’aura della mia memoria.


Ricordiamoci che Keats è uno dei primi e dei maggior poeti romantici e leggerlo oggi, quando il massimo del romanticismo è fiori-cenetta-cioccolattini-notte insieme al suono dei Modà, fa salire il diabete anche ad un cucciolo di Chow Chow

Ma mentre leggevo ero sicuro che lo stesso spessore e la stessa passione li avevo già sentiti. E non nei Modà.

Con le dovute differenze inevitabilmente legate al linguaggio (Keats scrive a cavallo del 1800), del mezzo comunicativo (poema vs canzone) e di ciò che significa incontrare una bella donna 200 anni fa ed oggi, è stato Max Gazzè a ricordarmi Keats.

Con la seguente canzone:








Concludo con dei dovuti ringraziamenti: in primis al mio carissimo amico per aver insistito affinché leggessi Hyperion. Avevi ragione.

A Dan Simmons, per avermi fatto conoscere Keats.

E a Keats, che vissuto solo 25 anni, ha fatto molto di più di tante persone che sono in vita da più tempo.


giovedì 12 gennaio 2012

Ricordi

La periodica pulizia a cui sottopongo l’hdd dei miei pc, mi porta ogni volta, puntualmente, a riscoprire dei vecchi tesori dimenticati.
File di word o notepad con idee su nuovi racconti; frasi iniziali di poesie che non verranno mai scritte; incipit di racconti di cui non ricordo più la trama.
La cosa più bella però, è leggere la data di creazione di queste pepite. Ho sempre avuto la buona abitudine di inserire, anche nelle brevi frasi gettate di slancio e di fretta su pezzi di carta, l’ora e la data in cui li ho scritti.
Rileggerli, magari anni dopo, mi da una sensazione di nostalgia dolcissima e mi spinge ad un piacevole esercizio di memoria: ricordare dove potessi essere in quel momento, con quale persona, con quali idee in mente, e pensare se in quel momento del passato ero riuscito ad immaginare dove il me stesso futuro sarebbe stato, rileggendo quell’appunto.
Questa piccola premessa perché in un hdd esterno, nel labirinto delle cartelle di Windows, ho trovato questa riflessione su un libro di Paolo Coelho.
Ho leggermente modificato il testo per motivi personali, ma il contenuto è rimasto intatto.
Buona lettura.

“Ho appena finito di leggere le prime pagine de “Sono come il fiume che scorre”.
Una persona a me cara me l’ha regalato l’8 marzo, quasi tre mesi fa, ma non lo avevo ancora aperto.



Il motivo è semplice: come ogni libro di Coelho, ho sempre il timore che quelle maledette pagine mi sbattano in faccia una realtà che, forse per paura, o forse per…no è solo per paura, non voglio leggere e, quindi, affrontare.
In più, dopo che questa persona aveva già scritto la dedica in prima pagina (dolcissima e commovente, come sempre), ci siamo accorti che, a causa di un errore di stampa, al libro mancavano delle pagine. Non mi andava di leggere un libro…difettoso.
Oggi, invece, l’ho iniziato.
Come volevasi dimostrare. Due pagine mezzo, “Un giorno nel mulino”, ed eccomi con la testa a Parigi. Coelho racconta di aver comprato un vecchio mulino in un paesino di 200 anime in Francia e di averlo adibito a residenza. Quando va lì è solo. Vivere in campagna lo porta a incontrare poche persone. È il concetto di “quasi nessuno”, che riesce ad esprimere cosi bene. Cosi come quello del Mondo che entra tramite l’ADSL.
Ma non è questa la cosa strana, si può vivere da solo anche in una metropoli.
No, il punto che vuole esprimere Coelho è un altro: cosa pensi quando sei in un ambiente come quello che lui descrive? La campagna, le lunghe passeggiate, gli animali, la vita regolata solo sulle condizioni meteorologiche?
Per quanto mi riguarda, però, non è questo. Ciò che Coelho ha scritto è esattamente quello che ho provato io a Parigi.
Parigi è stata la mia campagna, il mio modo di isolarmi e vivere un contesto in cui potere organizzare la giornata senza lo stress degli impegni lavorativi e, soprattutto, senza sentire la mia stessa voce ripetermi cosa dovevo e/o non dovevo fare.
Anche io ho provato la stessa sensazione che provava lui, quando in un bar ha trovato la connessione ad internet: affacciarsi sul mondo. Non riesco a trovare parole migliori per definire l’impatto che le notizie su ciò che stava succedendo in Italia, mentre io passeggiavo sugli Champs Elysees, ebbero su di me.
La cosa bella di tutto ciò, però, era quando cliccavo sulla X del browser.
Tutto il mondo era su internet. Ma il mondo che volevo io era solo due passi fuori dall’hotel.”                                                                                                            


27/05/2009, ore 12.58.

martedì 10 gennaio 2012

Acquisti

Per un’amante della scrittura non c’è cosa migliore che ricevere, per il compleanno, per Natale (che nel caso mio coincidono), o in qualunque altra ricorrenza, un bel libro.
O, meglio ancora, un succulento buono da poter spendere in libreria.
Le persone che mi stanno vicino ormai lo sanno e non hanno l’ansia di dover scegliere ogni anno qualcosa di diverso ed originale rispetto all’anno precedente.
Ma se negli anni passati avevo le idee ben chiare su come spendere il tanto atteso buono, quest’anno non è stato cosi facile: nei mesi scorsi ho allargato ulteriormente i miei interessi e non sapevo neanche io quale libro dover prendere per approfondirli.
Alla fine, con in testa le voci degli amici che mi consigliavano questo o quell’altro libro, ho optato su tre titoli.
Innanzitutto “Le Valchirie” di Paulo Coelho.
Coelho è uno scrittore disarmante. Forse per questo è tanto amato e tanto odiato al contempo. Riesce sempre a spiazzarti con ciò che dice e nel modo in cui lo dice. Ogni volta che ho letto un suo libro qualcosa dentro di me ha protestato, come quando un amico ti dice in faccia che hai sbagliato e lì per lì, pur sapendo che ha ragione, te la prendi.
Ho scelto questo libro perché parla del deserto. Parla del ritrovamento di se stessi. Anche se ciò che mi affascina di più in questo scrittore non è la capacità di ritrovarsi, ma quella di riuscire a perdersi completamente. Ho delle forti aspettative riguardo a questo libro, per questo devo scegliere il momento giusto per leggerlo.
Il secondo libro, “I miti del nostro tempo” di Galimberti, mi è stato straconsigliato da un carissimo amico, col quale condivido una particolare visione del mondo. Un trattato sui falsi miti sociali da cui siamo circondati e con i quali siamo stati educati: la giovinezza, l’intelligenza, la felicità.
E infine, un libricino piccolo piccolo, che a vederlo esposto sui ripiani della libreria ti avrebbe fatto pena e non l’avresti neanche considerato: “La valigia di mio padre”, del premio Nobel Orhan Pamuk.
Per quanto sia innamorato dello scrivere e di tutto ciò che ad esso ruota intorno, da alcuni anni non mi informo più sui vincitori dei premi più ambiti. Per questo mi vergogno e mi pento di non aver conosciuto Pamuk anni fa.
Quando ho cercato questo libro, peraltro consigliatomi da un amico di vecchia data, appassionato di scrittura come me ma decisamente più lungimirante, mi aspettavo un tomo da 400 pagine; trovarmi invece ad uscire 8,00 euro per un testo di appena 70 pagine, mi ha riportato in mente i clienti beceri che servivo quando facevo il commesso: volevano spendere pochissimo e avere il massimo, anche se, e soprattutto, a disprezzo della qualità.
Proprio perché dalle esperienze passate qualcosa si deve pur imparare, ho acquistato quelle pagine a cuor più leggero.
“Beati i soldi spesi”: mai frase retorica è stata più calzante che nell’acquisto di questo libro.
L’ho divorato ad occhi semichiusi alla luce della mia abat-jour, e in ogni sua pagina, in ogni suo rigo mi rivedevo, mi immedesimavo, mi sentivo e sorridevo. E pensavo che la gelosia che ho provato – che tutti gli scrittori provano, ma non tutti hanno il coraggio di ammettere – nei confronti di un premio Nobel, mi aveva tenuto lontano da uno scrittore che avrebbe potuto darmi moltissimo se solo lo avessi letto prima. Esempio ne è il fatto che lottando contro il freddo incombente all’esterno del mio caldo piumone, mi sono alzato e ho scritto i versi di una poesia che da tutto il giorno mi ronzava in testa.
Ma con i libri non è mai troppo tardi. A volte ti può anche capitare di leggerli nel momento sbagliato e, quindi, non apprezzarli, per poi diventare tra i tuoi preferiti solo qualche anno dopo.
Mi piace pensare che i libri abbiano una loro personalità, che arrivino quando devono farlo, magari per portarti un messaggio, un’ispirazione, una lezione.
O semplicemente per farti passare delle ore provando delle emozioni sopite e anestetizzate dalla vita di tutti i giorni.
Quale migliore aspirazione per uno scrittore?