venerdì 14 dicembre 2012

The Walking Dead




Era il 31 ottobre del 2010 ( il 1° novembre in Italia) quando, in prima visione negli Stati Uniti, andava in onda la prima puntata di quello che sarebbe diventato uno dei più interessanti prodotti televisivi del genere horror degli ultimi anni. 
È una giornata qualunque di una cittadina americana qualunque: due poliziotti, Rick Grames (Andrew Lincoln, Love Actually, 2003) e Shane Walsh (Jon Bernthal), stanno bevendo caffè e divorando ciambelle in auto quando, a seguito di una chiamata, rimangono coinvolti in una sparatoria. Rick rimarrà gravemente ferito ed entrerà in coma. Al suo risveglio, emaciato, deperito e denutrito, si ritroverà a vagare in un ospedale prima, e in una città poi, totalmente abbandonate, ma non per questo disabitate.
Da qui inizierà il suo, e il nostro, lungo viaggio per ritrovare la moglie, il figlio, la speranza e per conoscere la verità su quanto accaduto, destreggiandosi tra morti viventi, gang non proprio cordiali e mancanza di risorse.
Il regista Frank Darabount non è nuovo a pellicole del genere: Sepolto vivo, il suo primo vero lavoro, è del 1990. Ma aveva già scritto la sceneggiatura di Nightmare III: i guerrieri del sogno (Chuck Rusell, 1987) e de La Mosca 2 (Chris Walas, 1989).
Le sue grandi doti vengono fuori, però, solo successivamente con: Le ali della libertà (1994), tratto da un racconto di Stephen King ( Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, pubblicato nella raccolta Stagioni diverse, 1982); Il Miglio verde, sempre ispirato dall’omonimo romanzo di King del 1996; e con The Myst, tratto da cosa? Un racconto. Di chi? Esatto, di Stephen King (La nebbia, pubblicato nella raccolta Scheletri, 1982).
Un tipo abitudinario? Molto probabilmente si, dato che tre dei protagonisti principali li aveva già diretti proprio in The Myst: Heather Laurie Holden, che interpreta Andrea, e che ricordiamo per un altro ottimo film horror, Silent Hill (Christophe Gans, 2006); Jeffery DeMunn, che interpreta Dale Horvath, e che addirittura ha fatto l’en plein recitando in tutti e tre i film su citati di Darabound; e Melissa Suzanne McBride che interpreta Carol Peletier (che in The Myst, interpretava, similmente a The Walking Dead, una sfortunata ma coraggiosa madre).
Nel cast, nei panni di Lori, moglie di Rick, Sarah Wayne Callies già vista in Prison Break, mentre Chandler Riggs, qui alla sua prima vera interpretazione importante, veste i panni del figlio Carl.
Se si dovesse trovare un tag, una key che definisse ciò che nel panorama delle serie tv rappresenta The Walking Dead, credo che “innovazione” sarebbe il termine più calzante.
Certo “innovazione nella tradizione”, renderebbe meglio l’idea. Ma non sarebbe più un tag.
Come nella migliore delle tradizioni cinematografiche, infatti, la trama segue le avventure/disavventure di un gruppo di superstiti che cerca di sopravvivere in uno scenario post-apocalittico. “In un mondo che è andato avanti”, direbbe Stephen King. E non sbaglierebbe di certo.
Nulla di nuovo, quindi? Forse si. Forse no. Gli zombi non sono certo usciti fuori nel 2010: esistono ormai nella cultura popolare (e non solo nell'industria culturale) dal 1968, quando Night of the Living Dead (Romero, 1968) terrorizzava i giovani e i meno giovani nei cinema statunitensi.
Ma, assoggettato da tale piccolo capolavoro, il genere zombie e, in un certo qual modo, tutto ciò che agli zombie si è ispirato in seguito, non si è mai discostato realmente dall'idea di un gruppo di uomini che lottano per la sopravvivenza, barricati all'interno di un luogo che sperano sicuro.

Si potrebbero qui citare innumerevoli produzioni hollywoodiane o di Cinecittà più o meno riuscite (tutta la saga di Romero e la maggior parte della produzione di Lucio Fulci), cosi come opere letterarie del già citato King (Cell, 2006) oppure il best seller World War Z (Max Brooks, 2006), oppure ancora lo stesso fumetto da cui la serie è tratta (Robert Kirkiman, 2003). Non scordiamo poi il fenomeno tutto italiano di Dylan Dog (Scavi, 1986), il cui primo numero si chiamava proprio L’alba dei morti viventi, in onore di Romero.
Ma tutte, in un modo o nell'altro raccontano la stessa storia. Innovazione nella tradizione, dicevamo, però. Si, perché se anche qui troviamo i superstiti, in realtà l’intreccio (ed è qui la prima innovazione) ci viene svelato lentamente, di pari passo con ciò che affrontano e scoprono i protagonisti.
Niente scene post apocalittiche in stile L’Ombra dello scorpione (King, 1978) che ingurgitano subito il lettore/spettatore nella desolazione e nella puzza di carne putrefatta. Niente scimmie infette che diffondono il pericolo mortale (28 giorni dopo, 2003). Niente complicati complessi sotterranei in cui si sperimentano armi batteriologiche (Resident Evil, 2002).
Ma soprattutto, nessun limite dei 120 – 150 minuti tipici della pellicola.
Ed è qui che, forse, risiede tutta la carica di quest’opera: se zombie vuole dire sopravvivenza, e sopravvivenza significa disperazione, 120 minuti non sono sufficienti a trasmettere tutta l’angoscia, la stanchezza, le paranoie, ma anche i desideri, le speranze e i sogni di un gruppo di uomini che fanno fronte comune alle difficoltà. Sei puntate nella prima stagione di 50” l’una, più altre tredici puntate nella seconda, più altre 16 per la terza, forse potrebbero riuscirci.

La ricchezza della trama, gli scenari desolati e ben ricostruiti; l’attenzione per i dettagli, per le situazioni che, paradossalmente, diventano verosimili nella loro irrealtà; la descrizione introspettiva dei personaggi ( e soprattutto il loro evolvere in base alle circostanze e nel corso delle puntate); una regia che tiene inchiodati allo schermo per tutta la durata dell’episodio; le trovate narrative, alcune già viste, come i flashback iniziali che svelano i retroscena (come non ricordare l’onnipresente Lost?), altre sufficientemente nuove per il genere (ricoprirsi di interiora di zombie per non venire attaccati): tutto ciò è The Walking dead.

giovedì 6 dicembre 2012

Chemistry - La chimica del sesso



Avete presente quando, da piccoli, vi ostinavate a priori a non voler assaggiare qualcosa, convinti che non vi sarebbe piaciuto? E quante volte, per coerenza con il capriccio, avete alla fine ceduto, assaggiato, ma siete rimasti saldi all’idea iniziale di disgusto?

Ebbene, quando ho letto per la prima volta la trama succinta, troppo succinta, di Chemistry – La chimica del sesso, la sindrome di Peter Pan che sonnecchia nel mio animo si è risvegliata con tutta la dirompenza di cui è capace. Ho puntato mentalmente i piedi contro il me stesso adulto, curioso e aperto a tutto, ma alla fine, proprio come non la spuntavo con i miei, anche con il mio alter ego ho dovuto cedere.

Ho cliccato, quindi, sul file in questione, e sono bastati esattamente 72 secondi affinché un misto di rimpianto, rimorso e disprezzo mi provocassero dei conati di vomito.

Pensate che sia un po’ esagerato?

Forse. Ma se dovessi scegliere cosa fare passare ad un uomo che mi ha sterminato la famiglia, lo metterei davanti a tutti gli episodi della stagione.

In bluray.

Su di uno schermo 50” Led.

Con audio dolby digital surround.

Fino a quando non mi chiederebbe di porre fine alle sue sofferenze.

Ma andiamo con ordine, visto che mi sono sfogato abbastanza.

La trama della serie è semplice: una poliziotta salva un avvocato da un incidente stradale. Tra i due scoppierà una passione sessuale degna di… un film porno del genere più abbietto e squallido.

Fin dalla sigla, sia in termini visivi che musicali, si avverte un’aria di sufficienza tecnica, se cosi si può descrivere. Sembra tutto arrangiato: la fotografia, gli attori, il montaggio. Avverti subito che c’è “qualcosa che non va”.

Gli dai comunque fiducia e… fai male.

La sensazione, infatti, non cambia: siamo davanti ad uno squallido film porno di serie B. Con la B maiuscola.

Dove gli attori abbozzano dialoghi da decerebrati, scambiandosi occhiate da allupati, fino all’immancabile scena di sesso.

In più, ad un occhio abituato a serie tv prodotte come fossero colossal hollywoodiani, errori come il green screen che si muove mentre l’auto in movimento ha lo sterzo fermo, oppure i capelli del protagonista uscito da un’auto capovolta, pettinati meglio dei miei dopo che esco dal barbiere, ti danno una sensazione di squallore che non si trova più neanche nei filmati amatoriali di youtube.

Quasi dimenticavo: e le scene di sesso? Si intitola la chimica del sesso… come non possiamo parlare delle scene di sesso?

Qual è la soglia che trasforma un film da erotico a porno? Ciò che si lascia vedere allo spettatore? Ciò che fanno gli attori?

Oppure, secondo me, l’erotismo è un’arte, mentre il porno è… porno?

Non so se il regista se l’è chiesto, ma sicuramente ciò che vedrete in questo telefilm, non è né l’uno, né tantomeno l’altro.

In un offerta mondiale mediatica come quella che offre il web, senza ipocrisia, se volessi vedere un film erotico oppure un vero porno, non avrei che l’imbarazzo della scelta. Perché, quindi creare qualcosa che sembra vicina ai film ’80 di Banfi e Fenech?

Ai posteri…

Chiudo qui questa recensione/sfogata su uno dei prodotti peggiori che si possa trovare in giro.

Che il regista torni a fare quello che sa fare meglio. Che sicuramente non è il regista.

P.S. A chiunque si stesse chiedendo perché, visto l’odio che sprizzano le mie parole, l’ho visto lo stesso rispondo cosi: l’ho visto perché, come chiunque altro, sono un amante delle serie tv e perché (ahimè, è un difetto) concedo un po’ di fiducia piuttosto che non provare nemmeno a guardare qualcosa che non conosco. Inoltre, se proprio lo volete sapere, dopo i primi minuti ho semplicemente premuto su forward per vedere queste famose scene di sesso scabrose e indecenti.

Il resto è scritto su!

Ad maiora!