venerdì 14 dicembre 2012

The Walking Dead




Era il 31 ottobre del 2010 ( il 1° novembre in Italia) quando, in prima visione negli Stati Uniti, andava in onda la prima puntata di quello che sarebbe diventato uno dei più interessanti prodotti televisivi del genere horror degli ultimi anni. 
È una giornata qualunque di una cittadina americana qualunque: due poliziotti, Rick Grames (Andrew Lincoln, Love Actually, 2003) e Shane Walsh (Jon Bernthal), stanno bevendo caffè e divorando ciambelle in auto quando, a seguito di una chiamata, rimangono coinvolti in una sparatoria. Rick rimarrà gravemente ferito ed entrerà in coma. Al suo risveglio, emaciato, deperito e denutrito, si ritroverà a vagare in un ospedale prima, e in una città poi, totalmente abbandonate, ma non per questo disabitate.
Da qui inizierà il suo, e il nostro, lungo viaggio per ritrovare la moglie, il figlio, la speranza e per conoscere la verità su quanto accaduto, destreggiandosi tra morti viventi, gang non proprio cordiali e mancanza di risorse.
Il regista Frank Darabount non è nuovo a pellicole del genere: Sepolto vivo, il suo primo vero lavoro, è del 1990. Ma aveva già scritto la sceneggiatura di Nightmare III: i guerrieri del sogno (Chuck Rusell, 1987) e de La Mosca 2 (Chris Walas, 1989).
Le sue grandi doti vengono fuori, però, solo successivamente con: Le ali della libertà (1994), tratto da un racconto di Stephen King ( Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, pubblicato nella raccolta Stagioni diverse, 1982); Il Miglio verde, sempre ispirato dall’omonimo romanzo di King del 1996; e con The Myst, tratto da cosa? Un racconto. Di chi? Esatto, di Stephen King (La nebbia, pubblicato nella raccolta Scheletri, 1982).
Un tipo abitudinario? Molto probabilmente si, dato che tre dei protagonisti principali li aveva già diretti proprio in The Myst: Heather Laurie Holden, che interpreta Andrea, e che ricordiamo per un altro ottimo film horror, Silent Hill (Christophe Gans, 2006); Jeffery DeMunn, che interpreta Dale Horvath, e che addirittura ha fatto l’en plein recitando in tutti e tre i film su citati di Darabound; e Melissa Suzanne McBride che interpreta Carol Peletier (che in The Myst, interpretava, similmente a The Walking Dead, una sfortunata ma coraggiosa madre).
Nel cast, nei panni di Lori, moglie di Rick, Sarah Wayne Callies già vista in Prison Break, mentre Chandler Riggs, qui alla sua prima vera interpretazione importante, veste i panni del figlio Carl.
Se si dovesse trovare un tag, una key che definisse ciò che nel panorama delle serie tv rappresenta The Walking Dead, credo che “innovazione” sarebbe il termine più calzante.
Certo “innovazione nella tradizione”, renderebbe meglio l’idea. Ma non sarebbe più un tag.
Come nella migliore delle tradizioni cinematografiche, infatti, la trama segue le avventure/disavventure di un gruppo di superstiti che cerca di sopravvivere in uno scenario post-apocalittico. “In un mondo che è andato avanti”, direbbe Stephen King. E non sbaglierebbe di certo.
Nulla di nuovo, quindi? Forse si. Forse no. Gli zombi non sono certo usciti fuori nel 2010: esistono ormai nella cultura popolare (e non solo nell'industria culturale) dal 1968, quando Night of the Living Dead (Romero, 1968) terrorizzava i giovani e i meno giovani nei cinema statunitensi.
Ma, assoggettato da tale piccolo capolavoro, il genere zombie e, in un certo qual modo, tutto ciò che agli zombie si è ispirato in seguito, non si è mai discostato realmente dall'idea di un gruppo di uomini che lottano per la sopravvivenza, barricati all'interno di un luogo che sperano sicuro.

Si potrebbero qui citare innumerevoli produzioni hollywoodiane o di Cinecittà più o meno riuscite (tutta la saga di Romero e la maggior parte della produzione di Lucio Fulci), cosi come opere letterarie del già citato King (Cell, 2006) oppure il best seller World War Z (Max Brooks, 2006), oppure ancora lo stesso fumetto da cui la serie è tratta (Robert Kirkiman, 2003). Non scordiamo poi il fenomeno tutto italiano di Dylan Dog (Scavi, 1986), il cui primo numero si chiamava proprio L’alba dei morti viventi, in onore di Romero.
Ma tutte, in un modo o nell'altro raccontano la stessa storia. Innovazione nella tradizione, dicevamo, però. Si, perché se anche qui troviamo i superstiti, in realtà l’intreccio (ed è qui la prima innovazione) ci viene svelato lentamente, di pari passo con ciò che affrontano e scoprono i protagonisti.
Niente scene post apocalittiche in stile L’Ombra dello scorpione (King, 1978) che ingurgitano subito il lettore/spettatore nella desolazione e nella puzza di carne putrefatta. Niente scimmie infette che diffondono il pericolo mortale (28 giorni dopo, 2003). Niente complicati complessi sotterranei in cui si sperimentano armi batteriologiche (Resident Evil, 2002).
Ma soprattutto, nessun limite dei 120 – 150 minuti tipici della pellicola.
Ed è qui che, forse, risiede tutta la carica di quest’opera: se zombie vuole dire sopravvivenza, e sopravvivenza significa disperazione, 120 minuti non sono sufficienti a trasmettere tutta l’angoscia, la stanchezza, le paranoie, ma anche i desideri, le speranze e i sogni di un gruppo di uomini che fanno fronte comune alle difficoltà. Sei puntate nella prima stagione di 50” l’una, più altre tredici puntate nella seconda, più altre 16 per la terza, forse potrebbero riuscirci.

La ricchezza della trama, gli scenari desolati e ben ricostruiti; l’attenzione per i dettagli, per le situazioni che, paradossalmente, diventano verosimili nella loro irrealtà; la descrizione introspettiva dei personaggi ( e soprattutto il loro evolvere in base alle circostanze e nel corso delle puntate); una regia che tiene inchiodati allo schermo per tutta la durata dell’episodio; le trovate narrative, alcune già viste, come i flashback iniziali che svelano i retroscena (come non ricordare l’onnipresente Lost?), altre sufficientemente nuove per il genere (ricoprirsi di interiora di zombie per non venire attaccati): tutto ciò è The Walking dead.

giovedì 6 dicembre 2012

Chemistry - La chimica del sesso



Avete presente quando, da piccoli, vi ostinavate a priori a non voler assaggiare qualcosa, convinti che non vi sarebbe piaciuto? E quante volte, per coerenza con il capriccio, avete alla fine ceduto, assaggiato, ma siete rimasti saldi all’idea iniziale di disgusto?

Ebbene, quando ho letto per la prima volta la trama succinta, troppo succinta, di Chemistry – La chimica del sesso, la sindrome di Peter Pan che sonnecchia nel mio animo si è risvegliata con tutta la dirompenza di cui è capace. Ho puntato mentalmente i piedi contro il me stesso adulto, curioso e aperto a tutto, ma alla fine, proprio come non la spuntavo con i miei, anche con il mio alter ego ho dovuto cedere.

Ho cliccato, quindi, sul file in questione, e sono bastati esattamente 72 secondi affinché un misto di rimpianto, rimorso e disprezzo mi provocassero dei conati di vomito.

Pensate che sia un po’ esagerato?

Forse. Ma se dovessi scegliere cosa fare passare ad un uomo che mi ha sterminato la famiglia, lo metterei davanti a tutti gli episodi della stagione.

In bluray.

Su di uno schermo 50” Led.

Con audio dolby digital surround.

Fino a quando non mi chiederebbe di porre fine alle sue sofferenze.

Ma andiamo con ordine, visto che mi sono sfogato abbastanza.

La trama della serie è semplice: una poliziotta salva un avvocato da un incidente stradale. Tra i due scoppierà una passione sessuale degna di… un film porno del genere più abbietto e squallido.

Fin dalla sigla, sia in termini visivi che musicali, si avverte un’aria di sufficienza tecnica, se cosi si può descrivere. Sembra tutto arrangiato: la fotografia, gli attori, il montaggio. Avverti subito che c’è “qualcosa che non va”.

Gli dai comunque fiducia e… fai male.

La sensazione, infatti, non cambia: siamo davanti ad uno squallido film porno di serie B. Con la B maiuscola.

Dove gli attori abbozzano dialoghi da decerebrati, scambiandosi occhiate da allupati, fino all’immancabile scena di sesso.

In più, ad un occhio abituato a serie tv prodotte come fossero colossal hollywoodiani, errori come il green screen che si muove mentre l’auto in movimento ha lo sterzo fermo, oppure i capelli del protagonista uscito da un’auto capovolta, pettinati meglio dei miei dopo che esco dal barbiere, ti danno una sensazione di squallore che non si trova più neanche nei filmati amatoriali di youtube.

Quasi dimenticavo: e le scene di sesso? Si intitola la chimica del sesso… come non possiamo parlare delle scene di sesso?

Qual è la soglia che trasforma un film da erotico a porno? Ciò che si lascia vedere allo spettatore? Ciò che fanno gli attori?

Oppure, secondo me, l’erotismo è un’arte, mentre il porno è… porno?

Non so se il regista se l’è chiesto, ma sicuramente ciò che vedrete in questo telefilm, non è né l’uno, né tantomeno l’altro.

In un offerta mondiale mediatica come quella che offre il web, senza ipocrisia, se volessi vedere un film erotico oppure un vero porno, non avrei che l’imbarazzo della scelta. Perché, quindi creare qualcosa che sembra vicina ai film ’80 di Banfi e Fenech?

Ai posteri…

Chiudo qui questa recensione/sfogata su uno dei prodotti peggiori che si possa trovare in giro.

Che il regista torni a fare quello che sa fare meglio. Che sicuramente non è il regista.

P.S. A chiunque si stesse chiedendo perché, visto l’odio che sprizzano le mie parole, l’ho visto lo stesso rispondo cosi: l’ho visto perché, come chiunque altro, sono un amante delle serie tv e perché (ahimè, è un difetto) concedo un po’ di fiducia piuttosto che non provare nemmeno a guardare qualcosa che non conosco. Inoltre, se proprio lo volete sapere, dopo i primi minuti ho semplicemente premuto su forward per vedere queste famose scene di sesso scabrose e indecenti.

Il resto è scritto su!

Ad maiora!

mercoledì 7 novembre 2012

Twitter: il cinguettio che diventa racconto... 2!

Pressato dalle continue richieste di amici e conoscenti riguardo l'esperimento: "Twitter: il cinguettio che diventa racconto", e sinceramente lusingato dalle stesse, ho pensato di inserire la versione "normale", cioè non suddivisa in tweet, nel link che trovate a fondo pagina.
Molti, infatti, non utilizzano twitter, ma non volevano perdersi il piacere di una buona lettura. 
Oppure hanno seguito i miei tweet ma volevano leggere il racconto nelle maniera consueta.
O forse volevano semplicemente vedere che c@..o ha combinato Marco questa volta.
In ogni caso, sono tutti benvenuti!
Questa pagina servirà anche per eventuali commenti, consigli, pareri e critiche.
L'esperimento, almeno per me che l'ho scritto, è stato davvero interessante e ho già in mente un nuovo racconto. Il mio dubbio rimane solo sul genere.
Chi mi conosce sa che sono un amante dell'horror e di horror ho scritto molto. Davvero.
Ma credo che, rispetto a racconti di altro tipo, questo genere sia il più inflazionato: trovare un argomento che sia al contempo originale e tenga il lettore avvinto al mio successivo tweet, sarebbe, quindi, un'impresa assai più ardua.
Ma a me sono sempre piaciute le sfide.
Ciò non toglie che potrei continuare con lo stesso genere a cui appartiene "Occhi" (non dirò quale per non spoilerare a chi non lo ha letto).
Spero, comunque, che troviate il racconto di vostro gusto!
Vi abbraccio virtualmente!
Ad maiora!
Marco.



martedì 30 ottobre 2012

1089 e altri numeri magici!


Per motivi esistenziali che non credo vi interesserà conoscere (sigh!, la solitudine) mi trovavo, poco tempo addietro, in quel di Ancona. Magnifica città, in cui, per quanto io vi sia rimasto solo per pochi giorni, un pezzo del mio cuore rimarrà li per sempre (non proprio come un Horcrux, ma quasi).

Ero li, semplicemente, a bighellonare con la mia morosa (come direbbero al nord, o zita come direbbero al sud) in attesa di prendere il treno che, in sole 4 ore, mi avrebbe teletrasportato a Roma.

Avendo finito il libro che mi ero portato dietro, avevo deciso di indugiare in un piccolo peccato culturale, nel quale non cadevo da tempo: acquistare Focus. Non mi dilungherò su ciò che penso di tale rivista. Lascio con fiducia la parola a Maurizio Battista.

Devo dire, però, che l’acquisto si rivelò un’ottima idea non tanto per la rivista in sé, quanto per il libro in allegato (che, a volerla dire tutta, ho strapagato). Il libro in questione si intitola: “1089 e altri numeri magici” di David Acheson. È un libriccino di poco meno di 200 pagine, nel quale lo scrittore, un professore di matematica, si cimenta nell’arduo compito di far piacere tale ingrata quanto odiata materia, arricchendola di aneddoti, esempi simpatici di vita vissuta e quant’altro possa distendere quelle labbra che si arricciano al solo sentirla nominare.




Personalmente ho sempre amato le materie scientifiche, e il libro è stato un piacevole compagno per tutta la durata del viaggio, durante il quale l’ho iniziato e finito, tanto è breve. Ne è valsa veramente la pena.

Con uno stile semplice e con argomenti quali: “Una breve storia di π”, e “Caos e catastrofi”, Acheson riesce ad incuriosire, a stupire, ad interessare, e a far riflettere.

Ma quello che mi ha più colpito, riportandomi alla memoria un altro libro a cui ora arriverò, è stato il capitolo 13, in cui si parla di “e”.

Come cita Wikipedia (Dio mi perdoni se la tiro in ballo, ma un sito serio e chiaro in Italia, cosi, ad una prima ricerca , non l’ho trovato!) e risulta come: “ una costante che, insieme a pi greco, è tra le più importanti per via delle sue numerose applicazioni, in modo particolare nell'ambito dell'analisi matematica” e come dice lo stesso Acheson: “spunta fuori in relazione ad un problema fondamentale che riguarda la rapidità con cui le cose cambiano”.

Affascinante. Pensate all’applicazione di tale principio quando vengono creati i modelli di diffusione delle malattie, afferma l’autore.

Quindi, per derivazione, la e è collegata anche al concetto di incremento.

Preso dalla foga di trovare applicazioni dei concetti di algebra nella vita di ogni giorno, mi era venuto in mente che lo stesso presupposto era alla base di ciò che lessi, qualche anno fa, in un libro di Anthony Robbins intitolato: “Come migliorare il proprio stato mentale, fisico e finanziario”.

A pagina 97 del libro in questione, Robbins racconta di come nel 1986 Pat Riley, coach dei Lakers di Los Angeles si trovò ad allenare una squadra che, reduce dalla vittoria del campionato nell'anno precedente, era convinta di non avere abbastanza energie per ripetere il gesto.

Il coach, allora, applicò il metodo dei “piccoli miglioramenti”: spinse ogni giocatore ad incrementare semplicemente dell’1 per cento la propria qualità di gioco. Un piccolissimo sforzo, a detta sua, che avrebbe portato a grandi vittorie. Detto cosi, sembra ridicolo: ad un breve calcolo significa che, per esempio, se un giocatore otteneva in media 70 canestri ogni 100 tiri, gli sarebbe bastato portare i suoi canestri a 71, per riuscire a fare la differenza. Possibile?

Si, perché se si incrementa dell’1% […] la prestazione di ogni giocatore sul campo in cinque diverse aree, lo sforzo combinato crea una squadra sessanta volte più efficiente di quanto non fosse prima[…]. Incredibile.

Non sono un matematico e non posso, quindi, affermare con certezza se il calcolo incrementale sia collegato alla costante e, a meno che, cosi a prima vista, l’incremento dei canestri ottenuti sia costante e misurabile.

Non so neanche se ciò basti ad avvicinare i ragazzi patiti di basket all’algebra alla fisica o, in generale, alle scienze.

Del resto non ho mai visto nessun giocatore dell’NBA, che dopo una vittoria, esclami, esultando: “Eureka!”

Ad maiora.

Twitter: il cinguettio che diventa racconto!


Le nuove piattaforme sociali sono oramai entrate a far parte cosi tanto della nostra vita di ogni giorno, che gesti e abitudini che ci caratterizzano, vengono fedelmente riportati e condivisi on line.

A me piace leggere e, soprattutto, scrivere: abitudine (sana, sottolineerei!) che ho pensato di trasmettere e condividere con le persone che frequento on line.

Ho deciso, cosi, di creare un progetto/esperimento che consiste nello scrivere un racconto breve tramite i tweet, e sempre tramite essi, condividerlo!Il racconto che scriverò verrà suddiviso utilizzando il limite, proprio di twitter, dei 140 caratteri.

Ogni tweet verrà numerato in ordine crescente, in modo da poter rintracciare le parti precedenti che, per un motivo qualsiasi, non sono state lette e seguire cosi la giusta sequenza delle parti del racconto.

Alla fine dell’esperimento, tutti i tweet verranno postati qui e nella mia pagina facebook (http://www.facebook.com/groups/394171327323385/), sotto forma di racconto unico e completo!

Il primo tweet verrà cinguettato l’1 /11 alle 20.00 sul canale #loraccontoconuntweet.

A seguire, posterò due tweet al giorno fino ala conclusione del racconto!

Spero che la mia idea vi piaccia o, quantomeno, vi incuriosisca!

Vi abbraccio virtualmente e vi ringrazio in anticipo per il tempo che mi avete dedicato e, lo spero, per quello che mi dedicherete!

Ad maiora!

sabato 27 ottobre 2012

Sherlock, the King



Mi sono seduto al pc con l’intenzione di scrivere una semplice recensione della nuova serie tv Sherlock attenendomi ai canoni tipici. Ma è stato più forte di me. Scriverò quindi, semplicemente, quello che la serie mi ha suscitato e portato alla memoria.
Le informazioni riguardanti questa nuova versione del conosciutissimo detective inglese, infatti, sono facilmente reperibili in rete: vi posso dire, però, che di nuovo, in questa versione ambientata ai giorni nostri, c’è che il personaggio è anch’egli moderno, utilizza il gps, gli sms e la rete e la stretta conoscenza delle materie attinenti a ciò che è il suo lavoro, è stata semplicemente riportata fedelmente.
Se nel racconto con cui Doyle introduce i personaggi, “Uno studio in rosso”, Watson appunta che Sherlock non ha la benché minima conoscenza della letteratura (elemento sul quale in seguito si correggerà, visto che Holmes citerà Dante e Shakespeare) e dell’astronomia (elemento, invece, confermato e citato nelle nuova serie), mentre sa distinguere tra più di duecento differenti tipologie di tabacco, anche l’Holmes moderno ha tali limiti. Ma cosi come affermava di riempirsi la testa (nella versione originale paragonava il cervello ad una soffitta) solo di materie importanti ai fini della ricerca investigativa, anche in questa nuova versione lo troviamo convinto di tale importanza.
Di nuovo,( forse, visto che Doyle non ne accenna affatto, se non per un lieve misoginismo) c’è che Sherlock è tendenzialmente omosessuale.
Quello che mi premeva di più scrivere, invece, è che il personaggio ha inspirato cosi tanta produzione letteraria, cinematografica, fumettistica, musicale, animistica e chipiùnehapiùnemetta, che uno dei miei scrittori preferiti non poteva non subirne il fascino e l’influenza.
Mi riferisco ad un racconto scritto da Stephen King, contenuto nella raccolta “Incubi e deliri”, nel quale per la prima e ultima volta nella sua vita, Watson arriva alla soluzione di un caso prima del detective.
Poi mi è venuto in mente che anche Umberto Eco volle omaggiare il personaggio inglese, chiamando il protagonista del suo “Il nome della rosa” Guglielmo da Baskerville, in riferimento al romanzo “Il mastino di Baskerville”.
Infine, ed è una supposizione mia, non certo avallata dalle testimonianze dei due scrittori, mi è sembrato davvero curioso come tra i due scritti, quello di King e di Eco, vi fosse un’altra, più velata, analogia: cosi come Watson nel racconto del maestro del brivido (quanto è riduttivo questo epiteto!), scrive alla veneranda età di quasi cento anni, allo stesso modo Adso da Melk scrive testuali parole: “[…] Giunto al finire della mia vita da peccatore, mentre canuto senesco come il mondo […] mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere.”
Che King abbia letto Eco, oltre che auspicabile per il buon lettore americano, credo sia anche abbastanza verosimile. King ha affermato di scrivere praticamente ogni giorno, escludendo il giorno di Natale, quello del ringraziamento e quello del suo compleanno ( bugia che ha poi smentito in seguito: tale affermazione era stata  creata di concerto con il suo editore per creare un’aura da scrittore ossessivo – compulsivo. In realtà ha affermato di scrivere anche in quei giorni), ma ha anche affermato di leggere in misura altrettanto grande. Non sembra, quindi, cosi difficile che abbia avuto tra le mani una copia del romanzo di uno dei più grandi scrittori italiani.
Sfortunatamente non lo sapremo mai.
A meno che non si chieda a King.
Ma so che è difficile reperirlo: sta sempre a scrivere.
Ad maiora.

giovedì 18 ottobre 2012

Dream House







Mi sono sempre piaciuti gli aneddoti e le curiosità che ruotano attorno ad un film: sono come il perfetto contorno ad un gustoso piatto. Ogni qualvolta decido di vedere un film, quindi, oltre alle recensioni cerco di farmi un’idea proprio da ciò che il film ha generato intorno a sé. Da quanta acqua ha smosso, direbbe qualcuno.

Nel caso di Dream House (attenzione il recente di Jim Sheridan, non quello di Graeme Campbell del 1998), sembrava proprio che avessi trovato pane per i miei denti – se mi è concesso di continuare sulla falsa riga del paragone culinario –.

Il regista, infatti, ha disconosciuto la propria opera dopo che la produzione l’aveva rimaneggiata più e più volte. Gli stessi attori principali, Daniel Craig e Rachel Weisz, si sono rifiutati di promuovere il film, in linea col pensiero del regista.

Con questi presupposti e dopo aver letto tante recensioni negative, non potevo fare a meno di vederlo!

La trama è molto semplice: Craig è Will Atenton, un editor di successo che, dopo aver acquistato una casa da ristrutturare nel New England, decide di lasciare il lavoro e dedicarsi a tempo pieno alla scrittura e alla propria famiglia. Scoprirà che proprio in quella casa, anni prima, sono state uccise una donna e le sue due figlie.

Il film girerà intorno alla ricerca della verità su quanto accaduto in quella casa, con dei graziosi, ma pochi, colpi di scena, fino ad un finale in parte prevedibile, in parte non proprio cosi scontato.

Non so se perché cosciente dei vari rimaneggiamenti, e quindi a causa di una percezione soggettiva e personale, ma per tutta la durata del film ho avvertito, in più di una scena, la sensazione che mancasse qualcosa, che la scena fosse stata tagliata, o che fosse stata piazzata li senza una reale motivazione.

In realtà, alla fine del film, i miei dubbi si sono rivelati fondati: ai fini della trama, e più precisamente ai fini della creazione di un intreccio che fosse abbastanza intricato e curioso da tenere il fiato sospeso, certi passaggi, cosi come certi personaggi fondamentali, ci tengo a sottolinearlo, avrebbero necessitato di maggiore risalto. Avrebbero contribuito a rendere migliore un prodotto che, a mio parere, è comunque valido, ma non brillante.

Peccato. Perché l’idea di fondo, gli attori e gli interrogativi che il film lascia aperti, sono di grande qualità.

È come se si ordinasse una gustosissima fetta di torta e, mentre la si assapora, ci si accorgesse che la crema, oppure la panna che la ricopre, oppure il cioccolato che la guarnisce, abbiano un gusto leggermente stantio.

Che delusione!

Ad maiora!

giovedì 4 ottobre 2012

Profondo Blu


Non è facile scrivere la recensione di un thriller.
Non puoi parlare troppo della trama per paura di svelarne delle parti importanti.
Non puoi, quindi, dilungarti neanche molto sui personaggi, perché alla trama sono strettamente legati.
Potrei parlarvi di ciò che ho provato leggendolo. Ma non sono un famoso critico letterario né tantomeno (aimè!) uno scrittore, quindi perché dovrebbe interessarvi?
Inoltre ciò che cogliamo all'interno di un libro (cosi come in una canzone o in un film, o ancora in un quadro), passa sempre per il filtro dei nostri gusti, delle nostre esperienze. Per ciò che siamo, semplicemente.
Di cosa potrei parlarvi allora? Come faccio a descrivere cosa penso di un libro, cercando di non parlare troppo del libro stesso?
Ora che sono finalmente riuscito a rompere il virtuale ghiaccio che era posto tra te, lettore ignaro e me, scrittore ignaro (???), e aver cosi riempito le prime righe di questo articolo, posso arrivare al nocciolo della questione.
Jeffery Deaver ho lo straordinario potere di catapultarti, anzi no, di risucchiarti come una Folletto nuova nuova, all’interno di qualunque mondo egli riesca a creare sulle pagine di un suo libro, fino a quando, a libro finito, non ti sembra di avere anche tu un’infarinatura di quel mondo (culturale, tecnologico, scientifico che sia).
Ebbi questa sensazione col primo libro che lessi, “La scimmia di pietra”. Appena finito, un po’ come Neo, esclamai: “Conosco la Cina”.
Idem per “La sedia vuota”: “Conosco l’Entomologia”.
Per Profondo Blu, la sensazione si è ripetuta. “Conosco l’informatica”? Forse no, almeno non del tutto.
Cosi come in questo libro, anche negli altri (almeno in quelli che ho letto io) Deaver gioca solamente con ciò che in realtà gli serve, per far si che la trama e i vari protagonisti da lui generati vivano la loro vita di carta  incastrandosi, evolvendosi e morendo, semplicemente per portarci dove egli vuole andare a parare.
Tutto ciò in realtà perché i suoi libri non sono manuali, ma ne rasentano la verosimiglianza grazie ad una massiccia dose di nozioni, informazioni e aneddoti di circostanza, utilizzati, come dicevo sopra, all’uopo.
Detto questo, Profondo blu si immerge nel e attinge dall’universo informatico e, con la maestria che lo contraddistingue, Deaver intreccia una trama coinvolgente e mai noiosa, fino al tipico finale a sorpresa con fuochi d’artificio.
Ed eccoci arrivati ai “però”.
DOMANDA: Come scrivere un thriller con un nerd come protagonista che non esce mai di casa e non ha rapporti sociali e quei pochi che aveva li ha persi, rendendo tutto interessante (chi ha detto “The Big Bang Theory”???).
RISPOSTA: In realtà non si può, è assodato. A meno che l’antagonista non sia un nerd… differente!
D: E come si arresta un nerd differente se, per quanto differente, non esce mai di casa, non sa rapportarsi ai suoi simili e vive in una realtà parallela totalmente virtuale la cui solo estensione nel mondo fisico è la tastiera?
R: Semplice, unendo il mondo dell’informatica nerdiana, a quello del social engineering, a quello del serial killer.
D: Ma non sembra un po’ da paraculo?
R: …
Questo è ciò che accade nel libro.
Nella mia vita offline, mi sono interessato di social engineering e di vita online, con un leggero occhio al rapporto tra questa e la creazione di alter ego, avatar e nickname: le pagine di questo libro mi hanno riportato alla mente una bellissima opera che, se interessati, vi consiglio di leggere. Si intitola: “Avatar, Dislocazioni mentali, personalità tecno-mediate, derive autistiche e condotte fuori controllo”. A conferma di quanto Deaver studi e si informi prima di scrivere su di un argomento.
Avrei il fortissimo desiderio di concludere con una bella spoilerata su una parte importantissima, se non la più importante, del libro, parte che reputo una paraculata di proporzioni bibliche, solamente per avere un’opinione in merito da chi lo ha già letto o lo leggerà (in caso, parliamone in privato!).
Ma so che non è educato. Non vorrei mi prendeste per un troll.
Ad maiora!

venerdì 27 luglio 2012

Chernobyl Diaries



ATTENZIONE! La seguente recensione contiene tanta irriverenza e tanto veleno, da farvi passare la voglia (o farvela venire) di destinare l’8x1000 alla Chiesa Cattolica.

Uomo avvisato.


Se fino a qualche anno fa (fino a diversi anni fa, in realtà) le mie personali aspettative (anche se credo che non differiscano molto dal pensiero comune) che accompagnavano la visione di un film horror erano soprattutto la curiosità, la voglia di qualcosa di originale, delle scene forti e una sceneggiatura intelligente, di recente sedersi su di un divano e far partire il file dell’ultimo capolavoro che “ha sconvolto l’America”, che decreta “il ritorno di un maestro dell’horror”, un film a causa del quale “non riuscirete più a prendere sonno”, significa sacrificare poco meno di due orette per assistere alla versione horror di Natale alle Bahamas.

È difficile essere originali. Davvero. E non voglio qui inserire una lunga trattazione del perché l’industria culturale stia uccidendo l’inventiva, ma solo mettere a fuoco il fatto che, forse, non è colpa degli sceneggiatori o dei registi, se il mercato richiede questo genere di film.

Semplicemente viene stanziata una cifra (che poteva benissimo essere data in beneficienza), viene scelto un regista che negli ultimi anni ha generato film leggermente interessanti e viene affidata la sceneggiatura ad un ragazzino delle medie la cui conoscenza della scrittura e comprensione della realtà non può non riportarci ai protagonisti (se non addirittura allo sceneggiatore e al regista) del già citato Natale oltr’alpe.

In cosa puoi essere originale se tutto è già stato scritto, se tutto è già stato filmato, se tutto è già stato pensato?



Naturalmente mi sto riferendo alla trama, alla fabula, all’intreccio, come la volete chiamare la chiamate, il nocciolo duro del film in pratica che, infatti, è proprio quella parte che, puntualmente, viene sottovalutata (ma si, chi se ne frega se non ha capo né coda!), semplicemente perché più difficile da sbrogliare.

Andiamo al film, che definire retorico è un eufemismo.

Si prendano 6 ragazzi americani, belli e ricchi (ma và?) e si mandino in Europa in giro a cazzeggiare per le grandi capitali (la cultura, infatti, non attira il teenager).

Tra loro occorre che vi siano, inderogabilmente, due belle gnocche (una bionda e una mora è sempre un’accoppiata vincente! Se poi una delle due, preferibilmente la bionda, ha una quinta su di una vita taglia 42 e non abbia nel guardaroba nulla che non sia una maglia abbottonata all’ombelico… meglio!) e due ragazzi dal viso carino e dai capelli che mantengono la piega anche sott’acqua.

Li si fanno divertire per i primi 25 – 30 minuti del film nel quale il montaggio spara veloci riprese allegre su di una base rock altrettanto allegra.

Poi, necessariamente, occorre inserire l’ELEMENTO MISTERIOSO, lo svolta, il pericolo!

Il testa di ca… di legno del gruppo, propone l’IDEONA: turismo estremo! Perché visitare una noiosa (?) Mosca, quando si può andare a Pripjat, città fantasma dell’ormai fantasma centrale nucleare di Chernobyl?

Dopo una prima, leggerissima, esitazione, i quattro baldi giovini si rivolgono ad un ex militare russo per farsi accompagnare in loco.

Ai cinque si aggregano due personaggi che, forse, riescono a risultare – se ne fosse possibile – ancora più stereotipati dei quattro americani: un globe trotter/pankabestia con tanto di zaino Decathlon, capelli lunghi, barba incolta, kefiah e cappello alla Manu chao e una ragazza nord europea con capelli tanto biondi da sembrare bianchi, tagliati alla meno peggio e poco (se non totalmente assente) gusto per il vestire.

Ora: è un film horror? Ci sono sti deficienti che vanno in un luogo che, lasciando perdere i presunti mostri, è più radioattivo del Signor Burns? Cosa mai potrebbe accadere? Che al primo intoppo si ritorni a casa? Come no…

Traete voi le conclusioni, anche perché ho già detto molto della trama.

Torniamo a noi.

Se una trama del genere risulta stantia come le cotolette che tua nonna ti propina ogni domenica da 20 anni, e forse di più, su cosa si può lavorare per rendere il film originale o quantomeno innovativo da spingere quattro deficienti a spendere degli euro per andare a vederlo al cinema?

Visto che, oltre alla trama, anche i dialoghi dei personaggi risultano cosi banali e le interazioni tra loro rasentano la sindrome di Asperger?

In parte la presenza del gentil sesso, che non fa mai male. In parte anche un’ambientazione che solo per il peso storico che ha sulle spalle, risulta inquietante. E, mi verrebbe da riscrivere “in parte”, anche per le riprese e il montaggio.

In realtà, se scrivessi due o tre anni fa, la vera novità sarebbe proprio li: la telecamera a spalla, con inserimenti di riprese dalla videocamera o dalla fotocamera dei personaggi e montaggio veloce da videoclip. Il tutto per trasmettere allo spettatore un maggiore senso di verosimiglianza dei fatti.

Se scrivessi due o tre anni fa.

Ma in questi pochi anni non si contano più i film che usano tali “stratagemmi”, e non sto a citarvene neanche uno perché siamo all’altezza di questo, e non voglio che li guardiate. Perché? Perchè vi rispetto.

Concludendo: nei 90 minuti che mi sono sorbito insieme alla morosa e a dei cari amici, ci siamo cimentati nel gioco del “Ora vuoi vedere che succede questo?”, ma anche il divertentissimo “Ma perché fanno cosi? Non era meglio…”, per concludere con un giro di “Sta scena è uguale a quell’altro film…”.

Quindi, non vi consiglierò di non vederlo. Vi consiglierò semplicemente di trovare il giusto gruppo di amici criticoni, allegri e prevenuti, con cui dissacrare, sventrare, sfottere e blaterare su di ogni singolo fotogramma del film

Il divertimento, vi prometto, sarà assicurato.

martedì 24 luglio 2012

Chef



La cucina è la vostra passione? Passate delle ore davanti ai fornelli con addosso un grembiule sudicio e armati di cucchiaio? Seguite alla lettera le ricette della Parodi, l’unica donna al mondo a riuscire a cucinare e non sporcarsi con addosso un abito da 300 euro?

Amate le f*****e ricette di Gordon Ramsay? Non perdete una f*****a puntata di Master Chef, di Hell’s Chitchen e di Cucine da Incubo?

Sognate di realizzare dolci leggendari come quelli del Boss delle torte?

No? Allora “Chef” sarà per voi soltanto un simpatico modo per trascorrere un’oretta e mezza in serenità.

Ma se avete risposto affermativamente anche solo ad una delle domande precedenti e dentro di voi brucia lo spirito di Vissani, sicuramente apprezzerete (anzi gusterete!) questa dolce commedia francese.

Per un attimo, preso dal mondo gastronomico, stavo cedendo alla tentazione di descrivere il film con l’abusato metodo della finta ricetta, cioè nel seguente modo:


Chef, ingredienti:

- 500 gr di attori francesi;

- 250gr di buoni sentimenti;

- 150gr di un argomento che piace sempre (la cucina);

- 2 storie d’amore;

- un pizzico di ironia;

- colpi di scena q.b.


Ma al secondo conato di vomito mi sono detto che avrei dovuto fare di meglio (anche perché, non è che ci voglia molto… ).

Ecco qui allora la trama: Jacky è un ottimo cuoco, forse più che ottimo, e queste sue qualità sono proprio il problema per il quale non riesce a tenersi un posto di lavoro per più di qualche settimana. La passione viscerale per la cucina, per gli accoppiamenti poetici tra gli odori e la consistenza del cibo, per i buoni vini; la pignoleria, il perfezionismo, la ricerca del piatto ideale, mal si sposano con le trattorie, i bistrot e i fast food in cui lavora.

Ma la vita non è, sfortunatamente, solo passione. E all’ennesimo ultimatum della fidanzata a trovarsi e tenersi un qualsiasi lavoro, pena la rottura del loro rapporto, Jacky sacrifica la propria vocazione per amore e per soldi.

Ciò che non è Jacky, e che vorrebbe diventare, lo è sicuramente Alexandre Lagarde ( interpretato da un in formissima Jean Renò): chef ricco, affermato, famoso, geniale. Il problema è che l’industria del cibo è, appunto, un’industria, con le sue regole spietate votate al massimo profitto con il minimo sforzo, e una figura romantica come quella di Lagarde ormai non può che suonare quantomeno anacronistico.

Romantica perché Lagarde in realtà è un uomo che ha dedicato troppo alla cucina e troppo poco alla famiglia, arricchendo d’amore il cibo, impoverendo quello per la moglie e la figlia.

Cosa potrebbe accadere mai, secondo voi, a questo punto? I due non potranno che incontrarsi e migliorarsi l’un l’altro, affrontando situazioni simpatiche, ridicole, fino all’immancabile lieto fine.

Qualche piccolo appunto. Premetto che non stiamo parlando di una produzione Hollywoodiana, che non è un colossal da 200 milioni di dollari. E non ne ha le pretese.

È un film dolce, leggero e simpatico. Mentre lo guardi senti i profumi del cibo sui fornelli, l’aroma del pane appena sfornato per le vie di Parigi, la sensazione dell’erba morbida del Campo di Marte ai piedi della Torre Eiffel.

Aaaahhh Paris!

Tutto questo parlare di cibo mi ha fatto venire l’acquolina in bocca. Ho messo su la pentola con l’acqua per la pasta: chi vuole assaggiare delle tagliatelle al pesto di pistacchio, speck e mandorle?

venerdì 8 giugno 2012

The Raven






La prima volta che lessi un racconto di Edgar Allan Poe fu grazie ai soldi che, ricevuti da mia nonna, mio fratello investì nell’uscita mensile di “100 pagine, 1000 Lire”, piuttosto che nel panino alla ricreazione: quel mese fu dedicato al nostro, con la raccolta “Racconti d’incubo”.
Ricordo che, per quanto geniali potessero apparirmi ad 11-12 anni, trovavo i racconti comunque astrusi, arzigogolati, altisonanti, e tutto ciò che mi lasciavano finito di leggerli, era una sensazione di confusione mista ad ammirazione.
Ancora oggi non mi sono molto chiari certi passaggi di “Conversazione tra Monos e Una”, per dirne uno.
Ma capivo già allora che il limite era in me: uno scrittore che aveva avuto delle idee cosi brillanti non poteva renderle tanto cripticamente sulla carta.
Di grande aiuto fu, in quel caso e da quel momento in poi, leggere la prefazione alle opere: conoscere la vita dell’autore e, soprattutto, tenere in conto l’anno in cui i racconti erano stati creati, rese tutto più chiaro.
Da li a leggere le altre sue opere, il passo fu molto breve.
Solo in età più matura, e dopo aver avuto un approccio con la poesia, ne ho ri-scoperto con affetto il genio (tanto da arrivare a provare a copiarne lo stile- in età scolare ci tengo a sottolinearlo - in un racconto horror a cui sono molto affezionato). E quando ne sento parlare, quando viene citato, o quando in una dimenticata programmazione televisiva notturna passano un film anni ’60 tratto da uno dei suoi racconti, provo quasi un moto d’orgoglio, come se si trattasse dell’opera di qualcuno che conosco personalmente.
Immaginate cosa ho provato, quindi, alla notizia che sarebbe uscito The Raven, un film che verteva sulla vita di Edgar Allan Poe (Tutti insieme: “Disse il corvo: mai più!”).
Come scrivevo, non era il primo film tratto da una sua opera che avrei visto, ma volere mettere John Cusack con i capelli dritti sulla fronte e il pizzo nero pece come nel famoso ritratto di Fèlix Vallotton?



Fino ad oggi vi sono state molte trasposizioni delle opere di Poe (da una piccola ricerca che ho condotto dovrebbero essere 14, ma credo siano di più, considerando le piccole produzioni), ma mai si era visto lo stesso Edgar sullo schermo ( e qui correggetemi se sbaglio e perdonate l’eventuale ignoranza!).
Non si può recensire The Raven senza una bella dose di spoiler, ma cercherò di limitare il più possibile i danni.
Il film si apre informandoci che il 7 ottobre del 1849, Edgar Allan Poe venne trovato moribondo su di una panchina in un parco di Baltimora, nel Maryland, e che gli ultimi giorni della sua vita rimangono un mistero.
Sul fatto che fosse stato trovato proprio su di una panchina vi sono opinioni contrastanti: molti affermano che vagasse, stordito, per le via di Baltimora; altri che fosse stato trovato svenuto all’interno di una cabina elettorale.
Su ciò si basa il film: il regista McTeigue ha immaginato che un serial killer mietesse diverse innocenti vittime, “citando” le morti raccontate da Poe nei suoi racconti più famosi, svelando cosi, grazie ad un veloce susseguirsi di eventi macabri e cupi, il mistero degli ultimi giorni di vita dello scrittore.
The Raven è un bel film.
Soprattutto per un amante dell’opera di Poe: sei li che segui la trama quando inizi a pensare che quella scena l’hai già vista o… letta. Che quel grosso pendolo ti ricorda qualcosa, cosi come un delitto in Rue Morgue o una persona murata come nel barile di Amontillado.
In realtà tutto il film è una grande citazione, più o meno palese.
Una su tutte i corvi. Sono presenti dalla prima all’ultima scena, sia attraverso i versi che lo stesso Poe declama, che fisicamente.
Il Poe che si vede è un poeta maudit (fu proprio Baudelaire a riscoprire e tradurre le opere in francese e a farle conoscere nel vecchio mondo): alcolizzato, povero, arrogante, senza più ispirazione. Ma innamorato, impavido e geniale.
In una parola: affascinante.
Cosi come si apre, il film si chiude.
Poe non conoscerà mai la vera fama in vita. Tantomeno la ricchezza. Figuriamoci l’amore. La sua vita è stata costellata di lutti, di dipendenza dall’alcol e di poesia.
Non so se questo film possa risvegliare l’interesse per le sue opere e per la sua persona. Lo spero.
Quanto a me, stanotte risfoglierò con piacere quel piccolo e vecchio libriccino da 100 pagine.
Ad maiora.

giovedì 2 febbraio 2012

Wislawa Szymborska


Come faccio ogni mattina, dopo aver fatto colazione, anche oggi ho girato un po’ sui vari siti delle testate giornalistiche per sapere cosa è accaduto durante la notte, e per sapere cosa aspettarmi durante la giornata.
Stamane ho letto della morte di Wislawa Szymborska, alla veneranda età di 88 anni.
Ammetto di non conoscerla ma, dai tanti articoli che leggo su dei, dai complimenti, dal compianto di scrittori e giornalisti, decido che devo riparare alla mia ignoranza.
Basta googlare il suo nome che ecco apparire biografia e poesie.
A tal proposito un ottimo articolo che ho letto è quello che potete trovare qui.
Nel poco tempo a mia disposizione riesco a capire che era una donna intelligente, sensibile e soprattutto, cosa che ammiro e stimo in una donna, sarcastica, ironica e brillante.
“Leggiamo le sue poesie,allora!”, mi dico.

La gioia di scrivere

Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?
Ad abbeverarsi ad un'acqua scritta
che riflette il suo musetto come carta carbone?
Perché alza la testa, sente forse qualcosa?
Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità,
da sotto le mie dita rizza le orecchie.
Silenzio - anche questa parola fruscia sulla carta
e scosta
i rami generati dalla parola "bosco".

Sopra il foglio bianco si preparano al balzo
lettere che possono mettersi male,
un assedio di frasi
che non lasceranno scampo.

In una goccia d'inchiostro c'è una buona scorta
di cacciatori con l'occhio al mirino,
pronti a correr giù per la ripida penna,
a circondare la cerva, a puntare.

Dimenticano che la vita non è qui.
Altre leggi, nero su bianco, vigono qui.
Un batter d'occhio durerà quanto dico io,
si lascerà dividere in piccole eternità
piene di pallottole fermate in volo.
Non una cosa avverrà qui se non voglio.
Senza il mio assenso non cadrà foglia,
né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo.

C'è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?

La gioia di scrivere
Il potere di perpetuare.
La vendetta d'una mano mortale.


Spero che l’abbiate letta tutta, e con calma. E spero che vi abbia trasmesso la stessa sensazione di genialità che ho avvertito io.
Molti scrittori si sono messi alla prova tentando di descrivere cosa si provi nel generare ex novo tutto un mondo che fino a pochi secondi fa non esisteva, a trascriverlo su carta e, in questo modo, dargli vita. Tentare dispiegare cosa si provi ad avere questo tipo di “potere” divino.
Perché di divinità si parla: nel momento in cui dai la vita ad esseri umani, ne crei un passato, un presente ed un futuro, una personalità e dei sentimenti e li fai vivere in un particolare mondo, in realtà giochi a fare dio.
Ma se molti scrittori hanno descritto tale sensazione, giocandoci anche dal punto di vista narrativo (mi vengono in mente i racconti “L’ultimo caso di Umney”, inserito nella raccolta “Incubi e deliri”, e “Area di sosta”, contenuto in “Al crepuscolo”, entrambi di S. King), pochi lo hanno fatto esprimendosi in versi, preferendo la prosa.
In un post di qualche giorno fa citavo Pamuk: il suo “La valigia di mio padre” è di 80 pagine.
“On writing” e “Danse macabre” (non è un errore la “s” al posto della “z”, il titolo è in francese) di King superano, rispettivamente, le 280 e le 480 pagine.
La Szymborska, lo fa in 32 versi. 
La parte in cui la goccia di inchiostro sta per cadere sul foglio e “dare vita” ai cacciatori, mi ha portato alla mente il diario di Tom Riddle ne “Harry potter e la Camera dei segreti”.
Ma nella mia ricerca mattutina, la poesia che più mi ha colpito e fatto sorridere è stata la seguente:

La cipolla
La cipolla è un'altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
Fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.

In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d'inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.

Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell'una ecco sta l'altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un'eco in coro composta.

La cipolla, d'accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l'idiozia della perfezione.

Una carissima amica (che ringrazio di cuore) a cui ho raccontato di questa poetessa e, nello specifico, di questa poesia con entusiasmo, ha osservato brillantemente come le ricordasse "L’Ode al carciofo" di Pablo Neruda, i cui versi sono citati,tra l’altro, anche nel meraviglioso film "Il postino".



Cibo per la poesia. Letteralmente.
Concludo con un’ultima poesia di Szymborska, sulla poesia stessa.
Ci sarebbe molto da scrivere su questi pochi versi, ma credo che se pur avessi la possibilità, il tempo e la competenza di farlo, non raggiungerei minimamente la loro carica espressiva.

Ad alcuni piace la poesia
Ad alcuni -
cioè non a tutti.
E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.
Senza contare le scuole, dove è un obbligo,
e i poeti stessi,
ce ne saranno forse due su mille.
Piace -
ma piace anche la pasta in brodo,
piacciono i complimenti e il colore azzurro,
piace una vecchia sciarpa,
piace averla vinta,
piace accarezzare un cane.  
La poesia -
ma cos'è mai la poesia?
Più d'una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come alla salvezza di un corrimano.




martedì 31 gennaio 2012

Carnage


Da diversi anni con il solito gruppo di amici fidati, abbiamo preso la sana abitudine, specialmente nelle sere d’inverno, di restare in casa a guardare un film.
L’idea di stare in giro a tentare di riscaldarci le mani col fiato, spintonarci per arrivare al bancone di un pub e strapagare una birra annacquata, proprio non ci va.
Allora si sceglie un film, si sposta il divano per meglio vedere la tv, si mangiucchia un dolce che qualcuno ha avuto l’ottima idea di cucinare e portare, e si comincia.
Non manca chi si lamenta del freddo, chi si lamenta perché non vede bene, chi si lamenta per il semplice gusto di lamentarsi.
Fortunatamente, però, che il film sia stupendo (molto raro) o risulti veramente pessimo (più probabile), le serate cosi organizzate si concludono sempre abbastanza bene e sempre, almeno per me, hanno un gusto di intimità e amicizia davvero squisito.
La scelta del film è un gravoso impegno: la scelta sbagliata, infatti, rovina inevitabilmente la serata.
Occorre imparare, allora, a pianificare la scelta in base a dei fattori: quante persone ci saranno? Che tipo di persone ci saranno? Che tv si ha a disposizione?
Sembra esagerato, ma non bisogna sottovalutare nemmeno uno di questi elementi.
Se si è in tanti, ad esempio, il thriller, il film romantico, quello di fantascienza, e l’horror con una trama complessa, sono da sconsigliare sia perché basta un piccolo mormorio di ognuno dei presenti per perdere il filo sia perché, soprattutto nel nostro caso, la pulsione (perché è di questo che si tratta) che spinge a commentare ironicamente e sarcasticamente ogni fotogramma del film, rende ogni pellicola simile ad American Pie o a Fantozzi.
Ecco quindi che subentra l’importanza della tipologia di persone presenti: sono persone tranquille? Hanno gusti normali? Si accollerebbero un film più impegnato?
Infine la tv: se si è in tanti e lo schermo è un tubo catodico da 20”, risulta logico non proporre Avatar.
Tutto questo panegirico per arrivare al film che, giorni addietro, ho avuto la fortuna di vedere con una coppia di amici: quattro persone, nessuna particolare fisima per il genere cinematografico, tv lcd full-hd 32”.
Il film? Carnage di Roman Polansky.


Solitamente il nome di questo regista suscita uno smorfia di disapprovazione ed esclamazioni del tipo: “Immagino che sarà leggero il film…”.
Ma, avendo letto le recensioni, anche se proprio “Natale alle Bahamas” non è, so che non è neanche “Il pianista”.
La trama è semplicissima: due ragazzini, Zachary ed Ethan, si scontrano fisicamente in un parco. Il secondo ne uscirà con due incisivi rotti e qualche altro problemuccio.
Piuttosto che considerarla semplicemente una tipica rissa tra adolescenti (forse con qualche danno di troppo), i genitori dei ragazzi si incontrano nell’appartamento dei genitori di Ethan, per discutere sul da farsi.
“Geniale” è il primo aggettivo che mi viene in mente guardando le prime scene.
Tutto girato all’interno di un appartamento, con un cast di quattro ottimi attori e una telecamera perlopiù a spalla.
Gentilezza, ipocrisia e atteggiamenti politically correct guidano i primi trenta minuti del film.
I protagonisti si parlano, si aprono, si scusano e si rapportano in maniera eccellente. Sembrano anche aver trovato un punto di incontro per sistemare il viso del ragazzino colpito.
Ma il troppo storpia, si dice. E al tipico invito a rimanere per prendere un caffè/thè (che di solito ottiene una risposta educatamente negativa), la situazione cambia radicalmente.
In un crescendo di tensione, che a tratti sfocia nel puro umorismo, le maschere della società perbene cadono, e si iniziano a vedere i veri volti dei personaggi.
Chi ti ha fatto inizialmente simpatia, il tipo che cerca di mettere pace e usa toni sommessi, in realtà è un bifolco.
Chi avevi inquadrato come stronzo, in realtà…lo è.
Chi sembrava ferma e matura, ha invece il bicchiere facile e un esaurimento nervoso.
Chi sembrava fine ed altolocata, si rivela amante dell’alcool e leggermente depressa.
Anche a voi è venuto in mente Pirandello? Forse perché pirandelliana è la situazione, con i riti sociali e la finta cortesia; pirandelliana è anche la scelta cinematografica, con un set tutto rivolto allo spettatore e con le quinte in cui non sai cosa stanno facendo/dicendo/pensando i personaggi che vi sono.
Conflitto moglie/marito e, generalizzando uomo/donna; flusso espositivo ininterrotto arricchito, anzi, da storie esterne alla situazione che si inseriscono tramite le telefonate sul cellulare; ottima caratterizzazione dei personaggi; colpi di scena.
Cosa altro dire, se non che è stato un ottimo film che ha, però, un’unica pecca: non la svelerò, per non rovinarvi in anticipo la visione.
Davvero un’ottima serata, non c’è che dire.
A quando la prossima?

lunedì 30 gennaio 2012

Parallelismi 2

Mesi fa un carissimo amico insiste per prestami un libro, Hyperion, di Dan Simmons.
Devono passare diversi giorni prima che riesca a dedicarmi alla sua lettura, ma nel momento in cui aggredisco le prime pagine (particolarmente ostiche, devo ammettere), capisco che è un libro che leggerò tutto d’un fiato.
Vi rimando al link per scoprirne la trama e l’importanza a livello letterario (ha vinto il premio Hugo nel 1990, non è poco).
Ciò di cui invece di cui voglio scrivere qui sono gli spunti di riflessione e di ricerca che il romanzo mi ha regalato.
Innanzitutto, lo stile.
Ogni scrittore col tempo crea, sperimenta ed, infine, affina un proprio personale stile che lo contraddistingue: ci vogliono anni però, tanti libri letti e tanti fogli scritti.
Anni durante i quali si inizia a scrivere cercando di emulare lo stile degli autori preferiti e, allo stesso tempo, si cerca timidamente di allontanarsene sempre di più.
Tale procedimento porta, prima o poi, ad uno svezzamento stilistico e, da non sottovalutare, psicologico.
Si cerca il coraggio di scrivere quello che si ha dentro e ciò, per molti, è una forma di affermazione personale che travalica la scrittura in sé
Inoltre, col passare degli anni si scopre quale genere letterario è più consono al proprio animo: la poesia...o forse il romanzo. Non sarebbe meglio un bel racconto breve? E il romanzo storico? La fantascienza? Per non parlare del diario autobiografico, della sceneggiatura cinematografica e della saggistica.
Inevitabilmente, però, quando nella tua mente visualizzi, senti (e già ne pregusti le frasi) una trama che funziona, e magari la immagini come un bel poema in terzine di endecasillabi, la tua penna inizia a scriverla in tutt'altro modo, cioè come in realtà sai fare meglio: un racconto beve, per esempio.
Ci vuole una particolare attitudine e una grandissima flessibilità per passare (con risultati decenti) da uno stile all’altro. Pochi scrittori che si avventurano in questi campi ottengono lavori che vale la pena di pubblicare e di leggere.
Simmons, per mia fortuna, è uno di questi. Cambia stile, relativo linguaggio e sfumature psicologiche in base al personaggio o alla situazione. A volte per piegarsi ad esigenze di trama, a volte, e si vede, per puro divertimento.
La cosa grande è che lo fa all’interno della stessa opera.
Per chi, come me, legge la sera alla luce di una abat-jour quasi sempre lo stesso numero di pagine fino a quando non si addormenta, è più lampante questo distacco, questa netta differenza che caratterizza le varie parti del romanzo rispetto ad un’opera che mantiene sempre lo stesso ritmo.
E non puoi fare altro che sorridere quando ti accorgi di esserti immedesimato tanto da aver dimenticato che è stata la stessa persona ad avere sritto quelle diverse parti.
Grazie Simmons.
Hyperion: il titolo Simmons lo ruba al canto “La caduta di Hyperion: un sogno”, scritta dal poco conosciuto, e poco studiato, romantico poeta inglese John Keats nel 1819.
Non conosco Keats, ma i continui riferimenti ai suoi poemi, alla sua vita e alla sua personalità contenuti nell’opera, mi incuriosiscono a tal punto da cercarlo in rete e acquistarne le opere.
Simmons infatti, arriva a dedicargli un intero personaggio, un cibrido (un essere umano, cioè, in cui è stata impiantata l'intelligenza e la personalità di un altro essere umano) da cui rimango subito affascinato: bello, malinconico tormentato. Un po’ Roy Batty di Blade Runner, un po’ Leopardi.
Sfoglio le pagine dell’edizione italiana con la curiosità di leggere proprio Hyperion per capire cosa abbia ispirato Simmons ma, ahimè, leggo nella prefazione che non vi è inclusa, perché non è facile trovarne una traduzione in italiano. Le opere che ho davanti sono tutto il repertorio poetico tradotto, almeno in edizioni attualmente in libreria.
Pazienza, lo leggerò comunque.
I poemi differiscono per lunghezza, ma sono tutti complessi e articolati: solo dopo averne letti diversi mi accorgo, dal testo inglese a fronte, che originariamente erano in rima.
Peccato, la traduzione italiana, per quanto ottima, ha tralasciato questo aspetto, a mio parere importantissimo.
Una poesia, in particolare, mi ha colpito e ha attivato in me quei collegamenti metatestuali,  che arrivo a mettere a fuoco solo che dopo giorni e giorni ho rimuginato.
La incollo qui, affinché si possano trarre le mie stesse sensazioni:

«Che terribile bellezza! Da quest’istante strappo dalla mia mente qualsiasi altra donna» 
Terenzio, Eunuco, II, 4

Voglio una coppa piena sino all’orlo 
E dentro annegarci l’anima:
 
Riempitela d’una droga capace
 
Di bandire la Donna dalla mente.
 
E non voglio dell’acqua poetica, che scaldi
 


I sensi al desiderio lussurioso, 
Ma una sorsata profonda
 
Tracannata dalle onde del Lete,
 
Per liberare con un incanto il mio
 
Petto disperato dall’immagine
 
Più bella che gli occhi miei festanti
 
Videro, intossicandone la mente.

È inutile – mi perseguita struggente 
La dolcezza di quel viso.
 
Lo sfavillio del suo sguardo splendente –
 
E quel seno, terrestre paradiso.

Mai più felice sarà la vista mia, 
Ché ha perso il visibile ogni sapore:
 
Perduto è il piacere della poesia,
 
L’ammirazione per il classico nitore.

Sapesse lei come batte il mio cuore, 
Con un sorriso ne lenirebbe la pena,
 
E sollevato ne sentirei la dolcezza,
 
La gioia, mescolata col dolore.
 
Come un toscano perduto in Lapponia,
 
Tra le nevi, pensa al suo dolce Arno,
 
Così sarà lei per me in eterno
 
L’aura della mia memoria.


Ricordiamoci che Keats è uno dei primi e dei maggior poeti romantici e leggerlo oggi, quando il massimo del romanticismo è fiori-cenetta-cioccolattini-notte insieme al suono dei Modà, fa salire il diabete anche ad un cucciolo di Chow Chow

Ma mentre leggevo ero sicuro che lo stesso spessore e la stessa passione li avevo già sentiti. E non nei Modà.

Con le dovute differenze inevitabilmente legate al linguaggio (Keats scrive a cavallo del 1800), del mezzo comunicativo (poema vs canzone) e di ciò che significa incontrare una bella donna 200 anni fa ed oggi, è stato Max Gazzè a ricordarmi Keats.

Con la seguente canzone:








Concludo con dei dovuti ringraziamenti: in primis al mio carissimo amico per aver insistito affinché leggessi Hyperion. Avevi ragione.

A Dan Simmons, per avermi fatto conoscere Keats.

E a Keats, che vissuto solo 25 anni, ha fatto molto di più di tante persone che sono in vita da più tempo.