lunedì 19 dicembre 2011

Sollevamenti

“Spesso il male di vivere ho incontrato.”
Mi ha sempre colpito questa frase. Fin dagli anni del liceo.
Primo verso della celeberrima e omonima poesia di Eugenio Montale, ho sempre pensato racchiudesse in sé, con un uso cosi sofisticato e diretto dell’ermetica, un significato tanto profondo quanto difficilmente esplicabile.
Il male di vivere. Non credo esista frase più bella per poter descrivere quelle sensazioni che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, ha provato: una persona cara che è venuta a mancare, la fine di un amore, la delusione per un progetto fallito.
Qui non me ne voglia Montale se piego un po’ i suoi versi alla mia bisogna: il male di cui parla lui è qualcosa che considera insito nel genere umano. E, tra quello che intendeva esprimere e ciò che sto cercando di dire io, credo vi sia lo stesso rapporto che può esserci tra una persona un po’ giù il pessimismo cosmico Leopardiano o Schopenhaueriano.
In realtà è proprio su questa sineddoche che basiamo la conoscenza del reale: sono le nostre piccole esperienze quotidiane che ci permettono di comprendere il tutto partendo da una parte di esso. Ma tale ispezione è davvero sufficiente? O ai nostri occhi è negata la vera conoscenza?
In un film che ho visto di recente, e per non ricordarmi neanche il titolo vi lascio immaginarne la qualità, nel tipico dialogo pre – bacio tra i due protagonisti teenager, lei afferma di essere insoddisfatta perché vorrebbe sentirsi parte di qualcosa di speciale. Lui le risponde, parafraso per ovvi motivi mnemonici, che se alza lo sguardo al cielo in una notte stellata, e considera che forse siamo l’unica specie senziente in tutto lo spazio conosciuto, in realtà fa già parte di qualcosa di speciale.
È un’immagine che mi ha risvegliato tutta una serie di ricordi letterari e non, a cui non pensavo da tempo: in primo luogo L’Alchimista di Coelho.
Nel libro un uomo viene invitato a corte dal Sultano che gli permette di ammirare le stanze della sua dimora, a costo che porti con sè un cucchiaino colmo di olio, e che non ne versi neanche una goccia. Impegnato nel compito, tornerà dal Sultano non avendo visto nemmeno un’opera d’arte. Con un sorriso, il Sultano lo inviterà allora a rifare il tour e, stavolta, a guardare meglio le stanze. Tornerà con gli occhi e il cuore pieni delle meraviglie che il castello custodiva ma, naturalmente, con il cucchiaino vuoto.
Siamo già immersi in qualcosa di splendido e speciale solo che, concentrati sulle contingenze, ne perdiamo la bellezza. Del resto, occorre spingersi al di là della vita di ogni giorno per poter gustare delle bellezze che ci circondano.
Mi torna alla mente anche il racconto “David Swan: una fantasia” di Nathaniel Hawtorne che, famoso quasi esclusivamente per la Lettera scarlatta ha, invece, scritto una serie di racconti di notevole contenuto.
Nello specifico in questo che ho citato, un giovane in viaggio per Boston per motivi che non ci riguardano, decide di riposarsi sul gradino di una fontana in una radura che, per le spiccate caratteristiche naturali, gli risulta particolarmente invitante. Durante il sonno, citando lo stesso autore: “ […] il fantasma della Ricchezza aveva lasciato piovere un’ombra dorata su quelle acque; il fantasma dell’Amore aveva dolcemente sospirato al loro mormorio, quello della Morte aveva minacciato di imporporarle del suo sangue, e tutto nella breve ora di sonno che si era concessa”. Come sempre, se vi ho incuriosito, vi invito a cercare e leggere il testo.
Tutto ciò per dire che, utilizzando sempre le parole dell’autore: “Noi non riusciamo ad acquisire che una conoscenza molto parziale degli eventi che effettivamente eserciteranno un influsso nel corso della nostra vita e sul nostro destino”. E ancora: “ […] sia che si dorma o si vegli, noi non udiamo mai gli aerei passi delle strane cose che sono sul punto di accadere, e non è il segno di una vigile Provvidenza che, mentre invisibili e inaspettati eventi continuamente attraversano il nostro cammino, esista tuttavia nella vita mortale sufficiente regolarità da permetterci, sia pur parzialmente, di precedere il futuro?”.
Ergo: siamo già all’interno di qualcosa di speciale. Vi viviamo dentro. Ma non per questo vuol dire che tutto debba andare sempre per il verso giusto. Il male di vivere è una condicio per quam si possa apprezzare il bene di vivere.
Nel film “Un’impresa da Dio”, alla protagonista appare un brillante e azzeccato Morgan Freeman nelle vesti del Signore Onnipotente, pronunciando delle parole di raro spessore: “[…]a chi pregando chiede pazienza crede che Dio dia pazienza, o dia l'opportunità di essere paziente? A chi chiede coraggio Dio lo concede o dà l'opportunità di essere coraggioso? A chi chiede la gioia di una famiglia più unita, crede che Dio regali sentimenti rassicuranti o l'opportunità di dimostrare amore ?”.
Ergo: non vi è luce senza tenebre (?).
Forse il problema sta nell’essere immersi, nel vivere e respirare un mondo in cui il pessimismo e il male di vivere è una componente fondamentale.
Lo ha ben capito e ben inquadrato Orhan Pamuk, premio nobel nel 2006 per la letteratura, che nell’opera Instabul introduce il concetto di hüzün: “[…] ho capito che quello che rende Istanbul bella è una particolare tristezza, una particolare tristezza turca che io chiamo, che i turchi chiamano hüzün. Molto simile a quello che in Occidente è conosciuto come melanconia. Ma con una differenza. Perché è un sentimento comune. Una tristezza che abbraccia ognuno e ognuno pensa di desiderare questa tristezza. Perché vogliamo continuare a sentirci così.
È un fenomeno che è facilmente riscontrabile, nella vita di ogni giorno, anche dal linguaggio con cui ci esprimiamo.
Roberto Re, nel libro “Leader di te stesso”, presenta un gioco molto interessante: propone di scrivere quanti più sinonimi o modi dire della parola “paura” e successivamente della parola “coraggio”. Statisticamente quasi il 100% delle persone che si cimentano, trovano molti più sinonimi della prima parola che della seconda: terrore, panico, spavento, fifa, strizza, timore, avere la tremarella, farsela addosso, scappare a gambe levate. E chi più ne ha, più ne metta. Diversamente, ardimento o temerarietà, non sono parole che usiamo molto nel linguaggio comune.
Concludo con una riflessione che Karl Popper esprime in una conferenza tenuta nel 1991 a Bad Homburg, il cui testo potete trovare nell’opera “Tutta la vita è risolvere i problemi”:
“[…] all’opposto dei miei contemporanei più giovani, ritengo meravigliosi il mondo e gli uomini. Benché io, naturalmente sappia che c’è molto male, so anche però che il nostro mondo è il migliore che mai si sia avuto nel corso della storia[…]. […]Ecco, allora, la mia tesi principale: ci va meglio non soltanto economicamente, ma siamo migliori anche moralmente.  Unicamente una cosa sono disposto a concedere: che siamo più stupidi di prima e acritici nei confronti di quanto si crede sia moderno”.

Ad maiora.

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